I tragici

Libreria Esoterica Roma Harmonia Mundi

 Quando si parla di cultura della Grecia classica si tende a pensare immediatamente a Platone e Aristotele. E tuttavia Dio, che è il tema che vogliamo tentare di affrontare, non è argomento esclusivo della filosofia. Vorrei pertanto provare ad analizzare la presenza di Dio nel teatro greco, nella tragedia e, di passaggio, anche nella commedia.
Ho scelto la tragedia in quanto forma per eccellenza della poesia greca classica, ma non solo. A differenza di altri generi quali, ad esempio, l’epica, la tragedia ha qualcosa in più. Omero nel narrare le vicende di Ulisse o di Achille descrive personaggi eroici portatori di valori forti quali la patria, la famiglia e la religione. Tuttavia le loro vicende non sono che l’esaltazione di tali valori in personaggi eccezionali ma non certo comuni. E anche la presenza della divinità nel mondo epico appare piuttosto meccanica: gli dei aiutano i personaggi a superare le avventure cui sono sottoposti (è il caso di Ulisse soccorso da Atena contro Nettuno) oppure usano gli uomini come pedine di uno scontro ben più grande (è il caso della guerra di Troia). Ma anche quando la poesia più si avvicina alla religione, come ad esempio nella lirica corale – pensiamo ai peana, i canti in onore di Apollo – ebbene anche in questo caso il rapporto fra uomo e divinità si arresta a puro formalismo, semplice esaltazione delle qualità del dio in funzione della preghiera finale.
Nella tragedia invece il pubblico non rimane passivo, non rimane estraneo alla vicenda: gli spettatori non sono chiamati semplicemente a riconoscere le virtù, ma sono tenuti ad indentificarsi con esse, a farle proprie. La tragedia greca ha anzitutto un valore catartico: gli uomini si riconoscono nei personaggi in scena e imparano, attraverso le loro vicende, a purifarsi dalle colpe e a riconciliarsi con la divinità. Ecco perché lo stato faceva partecipare gratuitamente agli spettacoli coloro che non potevano permetterselo. Ed ecco anche perché vale la pena cercare proprio nella tragedia la presenza di Dio: perché nella tragedia Dio è presente, direttamente o indirettamente, personaggio sulla scena o dietro la scena, ma costantemente accanto agli uomini.
Dio è anche all’origine stessa della poesia tragica. Tragedia è infatti tragoV ode, ossia canto dei capri o per i capri, canto dunque collegato al culto di Dioniso, dio della vita nelle sue forme più concrete e materiali. Ma anche secondo la teoria nietzschiana, la nascita della tragedia è da ricollegarsi agli dei, ad uno scontro fra elemento dionisiaco ed elemento apollineo, uno scontro fra luce e ombra alla base della coscienza e della conoscenza del mondo.
Ma veniamo ai poeti tragici per cercare di capire in pratica come si determini e come si evolva, storicamente, culturalmente e poeticamente, la presenza di dio e il rapporto con l’umanità.
Iniziamo naturlamente da Eschilo, il primo dei tragici, per osservare come la tragedia si definisca nella sua opera quale percorso di purificazione di una colpa commessa dall’uomo nei confronti della divinità. Il peccato viene solitamente definito ubriV, ossai peccato di tracotanza, di ribellione, di opposizione al dio. L’esempio più notevole è offerto dall’unica tragedia di argomento storico di Eschilo, I Persiani. In questo caso abbiamo Serse, re persiano, che intende sconfiggere i greci. Per riuscirci giunge a perforare il monte Athos e a coprire lo stretto dei Dardanelli di barche per poter far passare rapidamente la sua armata. È qui evidente il peccato di Serse: egli ha voluto sostituirsi al dio, ha voluto rompere l’assetto della natura per raggiungere il proprio obiettivo.
Gli uomini sono tuttavia coscienti che il peccato conduce alla punizione. Possiamo allora domandarci perché mai si pecchi. Secondo Eschilo tutto il male dipende da Ate, da una sorta di accecamento, di perdizione, che spinge gli uomini a violare le leggi divine. Ma non possiamo non osservare quanto questa posizione sia simile a quella dell’apostolo Paolo: “Faccio il bene che voglio e compio il male che non voglio”.
Il fine della tragedia di Eschilo è dunque riconciliare l’uomo con la divinità. L’atto di ubriV deve essere superato perché si possa ristabilire l’ordine: è soltanto attraverso il dolore e la punizione che l’uomo giunge alla consapevolezza della sua colpa e la può espiare. Per far questo il drammaturgo non utilizza una sola commedia, ma l’intera trilogia a disposizione. Durante l’agone tragico, la gara in cui i poeti combattevano per la palma della vittoria, venivano presentate tre tragedie ed un dramma satiresco. A differenza degli altri, Eschilo tendeva a concatenare fra loro le tre tragedie. Alla base della sua concezione religiosa era infatti l’idea che la colpa dei padri dovesse ricadere sui figli, e che dunque la purificazione potesse realizzarsi soltanto con una progressiva, piena e storica presa di coscienza. Indicativa a questo proposito la trilogia che passa sotto il nome di Orestea. Nella prima parte, Agamennone, il re della guerra di Troia viene ucciso dalla moglie Clitemnestra per aver sacrificato la figli Ifigenia. Nella seconda parte, Coefore, Oreste vendica la morte del padre uccidendo la madre e il suo amante. Nell’ultima parte, Eumenidi, Oreste, che dovrebbe essere punito per questo ennesimo peccato, viene risparmiato e può purificarsi.
L’Orestea è la testimonianza più evidente del significato che la divinità ricopre nella tragedia di Eschilo. Dio è innanzitutto Dike, ossia giustizia, ordine da contrapporre al caos. La legge violata deve essere ristabilita. Eppure, proprio nelle vicende di Oreste, vediamo coma la giustizia violenta e vendicativa degli dei giunga ad una nuova consapevolezza: le Erinni che devono punire il peccato di Oreste vengono tramutate in Eumenidi, dee protettrici della famiglia. L’ordine viene dunque ristabilito, ma è un ordine nuovo, un ordine diverso dal precedente, un ordine in cui la giustizia non passa più, necessariamente, attraverso la violenza.
In Eschilo dunque la divinità è innanzitutto giustizia, ma si tratta ancora di una divinità presente, materiale, di una divinità con propri specifici attributi che può convivere in scena accanto agli uomini e agli eroi. Con Sofocle le cose cambiano. Innazitutto va osservato che le sue tragedia diventano monadi chiuse in sé, non c’è più bisogno di una trilogia di testi fra loro collegati. Questo va di pari passo con l’idea che il drammaturgo ha del peccato e della purificazione. Le colpe dei padri non ricadono più sui figli.
Ma la tragedia di Sofocle non modifica soltanto le forme della poesia o la concezione del peccato. Modifica anche la percezione stessa della divinità. Laddove il dio di Eschilo è un dio presente, potremmo dire drammaticamente presente in scena; laddove i protagonisti sono consapevoli che la colpa commessa, pur involontariamente, avrà bisogno di purificazione; in Sofocle non si hanno più certezze. L’uomo è totalmente all’oscuro del volere divino, incapace di comprenderlo proprio in quanto uomo: i mortali possono capire soltanto a posteriori, soltanto dopo che gli eventi sono accaduti. Ed è alla luce degli eventi reali e immanenti che gli uomini possono riuscire a comprendere i disegni divini e trascendenti. Ma comprendere non significa capire, non vuol dire riuscire a squarciare il velo che separa uomini e dei.
Realmente indicativa di questa nuova concezione della divinità in Sofocle è Edipo re, il dramma dell’uomo che sfugge a tutto e a tutti pur di non realizzare il destino che gli è stato profetizzato ma che, nonostante tutto, giunge ad uccidere il proprio padre e a sposare la propria madre. A differenza dei personaggi di Eschilo, Edipo è totalmente incosapevole, potremmo dire innocente. I peccati non vengono commessi come atto di ubriV, di volontaria opposizione all’ordine divino, ma accadono quasi per caso. La divinità di Sofocle, sempre più lontana da un uomo che non la può vedere e non la può conoscere, perde gli attributi della giustiza per acquisire quelli, ancor più drammatici, del fato, di un destino a cui non si può fuggire.
Ecco anche perché Edipo, in conclusione della tragedia, si accecherà: nulla si può raggiungere con la vista, le immagini dei sensi non sono che realtà fallaci e ingannatrici. L’unica verità è quella a cui l’uomo non potrà mai arrivare, se non in un secondo tempo. Edipo comprende l’inconsistenza della vista e decide di non vedere più. Ma al contempo cerca nelle tenebre il modo per vedere altro, per guardarsi dentro, per comprendere ciò che comunemente non potrebbe conoscere.
In Eschilo la divinità era lontana e vendicativa. In Sofocle la divinità è tanto lontana da apparire quasi inesistente. L’utilizzo, molto parco, del deus ex machina non è che una riproposizione della natura misteriosa e, in un certo senso, artefatta dell’immanenza divina. Laddove inoltre la punizione era il mezzo per purificarsi dalla propria colpa, in Sofocle il dolore diviene piena consapevolezza dei limiti umani e mortali. Contemporaneamente tuttavia, e a differenza di Eschilo, l’attenzione inizia a cadere sull’uomo, sulle sue reazioni, sulla sua psicologia. L’eclissi del dio porta ad una concentrazione sull’uomo.
Questa è la grande scoperta di Euripide, il terzo tragico. Al centro delle sue tragedie è l’umanità colta nei suoi limiti, con i suoi pregi e le sue virtù. Il mito non è più il tempio inviolabile della divinità, ma uno spazio aperto in cui si muovono uomini concreti, fragili, problematici. È dall’analisi delle passioni che prende corpo il dramma della gelosia di Medea, dell’amore di Fedra, del tradimento di Ecuba e di personaggi mossi da desideri altrettanto forti e impellenti. Gli dei tradizionali ci sono, certo, non potrebbe essere diversamente; eppure appaiono in un certo senso svuotati del loro valore, del loro significato. Prendiamo il caso di Fedra. Possiamo certo pensare che la passione della regina per il figliastro Ippolito sia veramente il prodotto della volontà di Afrodite, così come ci racconta la stessa dea nel proemio; ma possiamo pensare anche che si tratti di sentimenti puramente umani, nei quali gli dei dell’Olimpo non hanno alcuno spazio. Gli uomini di Eschilo non fanno i conti con la divinità ma con sé stessi. Non c’è più nessuna giustizia da riaffermare né alcun destino da portare a compimento. C’è soltanto un uomo che si guarda intorno e si riconosce in un’identità collettiva fondata sulla coscienza del comune stato di sofferenza.
La divinità di Euripide torna ad essere la divinità di Omero, un dio in lotta con gli altri, mosso da passioni e da pulsioni ben poco divine. In questa rinnovata umanizzazione della realtà trascendente possiamo evidentemente riconoscere la volontà del drammaturgo di concentrare l’attenzione sul mondo e sugli uomini, senza cercare altrove le cause o le soluzioni ai problemi.
Questa evoluzione, o involuzione, a seconda dei punti di vista, è certo emblematica dell’evoluzione che si compie nella religiosità della Grecia del V secolo a. C., una Grecia in cui viene meno il ruolo delle divinità tradizionali e si va affermando progressivamente l’influenza di altri modelli, spesso provenienti dal vicino Oriente. Lo spostamento del centro dell’attenzione dal dio all’uomo non segna soltanto il passaggio ad un antropocentrismo, ma indica anche la ricerca di un diverso tipo di religiosità, più profonda e più sentita. Alla religione degli dei in continua lotta fra loro, si sostituisce adesso la fede in divinità meno immanenti, la fede in un dio interiore, meno vendicativo e al contempo forse anche meno distante, un dio che trova spazio proprio nelle pieghe adesso rivelate della fragilità umana.
Soltanto sotto questa luce possiamo comprendere le tragedie di Euripide. Ma sotto questa luce possiamo capire anche l’ironia di Aristofane, che nelle sue commedie trasforma le divinità tradizionali in “nuvole”, simbolo di astruseria e inconsistenza, e ci racconta di uomini che costruiscono in cielo le loro città. Aristofane vuole così mettere alla berlina non solo la religiosità tradizionale, ma anche quegli uomini che non hanno capito quanto velocemente e in che modo si sia evoluto il mondo; vuole ironizzare su quegli uomini che credono ancora di potersi sostituire agli dei, senza rendersi conto che gli dei non abitano più le dimore celesti, ma iniziano ad abitare i cuori e gli animi.
Questa è a grandi linee l’evoluzione della concezione della divinità nella letteatura greca classica, e costituisce anche la premessa alla trattazione del problema in chiave gnoseologica ed ontologica, così come venne affrontato da Platone e Aristotele. 

























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